Come nasce una mostra – “In Concert”, Ari Benjamin Meyers

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04 giu 20

giovedì 04 giugno '20

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OGR Cult

Come nasce una mostra - Ari Benjamin Meyers – In Concert
Interviste inedite e video per raccontare la mostra a cura di Valentina Lacinio & Judith Waldmann



Valentina Lacinio, curatrice OGR e co-curatrice della mostra In Concert di Ari Benjamin Meyers, racconta la mostra presso il Binario 1 delle OGR, Torino.

"La collaborazione con l’artista Ari Benjamin Meyers è nata su proposta della curatrice tedesca Judith Waldman la quale già impegnata nell’organizzazione della personale dell’artista dal titolo Tacet presso il Kustverein di Kassel ha immaginato di far viaggiare la mostra nei nostri spazi torinesi. La proposta di Judith è stata ovviamente ben accolta dal nostro direttore artistico Nicola Ricciardi che ha poi affidato a me la supervisione curatoriale della mostra, affinchè non si trattasse solamente di una traslazione spaziale della stessa dalla Germania all’Italia ma una vera e propria riconfigurazione, così come ci piace fare per tutte le nostre mostre che mantengono sempre la caratteristica fondamentale dell’essere site-specific, dunque di modellarsi sui nostri spazi, così caratteristici e non sempre di facile gestione.

Il primo passaggio fondamentale è stato quello di discutere su quale fosse l’obiettivo della mostra di Torino, ovviamente in relazione alla natura del progetto che era già stato delineato per Kassel. L’idea era di concepire le due mostre come fronti specchiati, come una sorta di LATO A e LATO B di un vinile. Questa metafora non è casuale, ma il riferimento al mondo della musica è fondamentale nel momento in cui si parla dell’opera di Ari Benjamin Meyers. La formazione dell’artista infatti affonda le sue radici proprio nella direzione e composizione d’orchestra, per poi sconfinare nel campo delle arti visive.
Ed è con questa immagine in mente, questo side A e side B, che insieme ad Ari e a Judith abbiamo cominciato a immaginare la mostra in OGR. Quello che sapevamo fino a quel momento era che nella prima parte di questa avventura condivisa con Kassel la mostra negli spazi del Kusteverein si sarebbe intitolata Tacet e avrebbe previsto una configurazione più tradizionale in cui appunto una selezione di opere dell’artista sarebbero state riallestite nella loro interezza con l’esclusività però di essere attivate da un unico speciale narratore, lo scrittore ​Jörn Schafaff​, identificato con l’appellativo de l’Archivista, che come un moderno Caronte avrebbe traghettato gli spettatori tra un’installazione e l’altra, ​e registrato nel corso dei giorni le proprie riflessioni e quelle dei visitatori stessi in un lungo saggio scritto in forma di diario. La mostra Tacet, come suggerisce il nome, prevedeva dunque uno svolgimento per lo più silenzioso.

Ed è proprio a partire dalle caratteristiche di questo primo capitolo della storia che insieme all’artista io e Judith abbiamo processato i primi ragionamenti. La mostra in OGR avrebbe dovuto essere in qualche modo il contraltare di quella prima mostra e avrebbe dovuto svelare tutta una produzione e un carattere del lavoro di Ari che in qualche modo la prima parte stava ancora tenendo celato. Abbiamo dunque provato a fare nuovamente un esercizio metaforico, concepire il grande spazio stretto e lungo del Binario 1 come un vero e proprio spartito musicale e immaginare a loro volta, come note tra le righe, una selezione di opere che potessero dialogare tra loro e intrecciarsi come in un grande medley.

Tutta la performatività e la sonorità taciuta a Kassel avrebbe invece risuonato nella nostra grande manica, con l’aiuto però di 8 elementi fondamentali e preziosissimi che sono stati i nostri perfomer italiani e stranieri: Amos Cappuccio, Chiara Cecconello, Sandhya Daemgen, Michela Depetris, Thomsen Merkel, Edoardo Mozzanega, Lisa Perrucci e Jan Terstegen. “In Concert”, questo il titolo dato alla mostra in OGR, è vissuta e cresciuta nell’arco dei mesi nei corpi, nelle voci e nelle straordinarie energie di queste 8 persone che hanno costituito il cosìddetto ensemble interpretando e incarnando propriamente le opere di Ari.

In uno scenario notturno delineato solo da timide cornici mobili di luce i performer si muovevano tra melodie e silenzi, lasciando esplodere gli spartiti così come le linee guida delle stesse opere performative, questo per più di 6 ore consecutive ogni giorno. Cito testualmente perchè molto rappresentative alcune impressioni di Michela: ​"La dipendenza dell’opera da noi e dalla presenza delle persone in sala, la mutevolezza della performance e della sua struttura, condizionata dalle nostre energie, dalla nostra stanchezza e dalle reazioni della gente, ha generato atmosfere e connessioni temporanee e intensissime. Era tutto sempre in continua trasformazione e noi dovevamo esser pronti ad accogliere continui cambi, in ogni momento."

La mostra è dunque diventata di per sè una nuova grande opera che ha fagocitato buona parte della produzione passata di Ari in favore di una restituzione completamente rinnovata.

Vorrei concludere leggendo un piccolo estratto dal mio testo critico per il catalogo della mostra:

La musica non era nello spazio, era lo spazio.
La musica non accadeva nel tempo, ma definiva il tempo.
La musica qui protagonista torna ad essere “viva, sociale, spaziale” e ancora “disordinata, politica, meta-temporale”, così come vuole il Manifesto (2017), sussurrato prima e declamato poi a piena voce dai performer, mentre rincorrono le proprie eco da un lato all'altro della sala. Ecco “cosa succede quando una mostra non richiede solo spazio, bensì tempo”, la mostra si svela minuto dopo minuto, e si dona a chi ha la pazienza di sostare."

 

Intervista ai performer italiani di “Ari Benjamin Meyers: In Concert” 

VL: Valentina Lacinio (curatore)
CC: Chiara Cecconello
EM: Edoardo Mozzanega
MD: Michela Depetris
LP: Lisa Perruccia
Si ringraziano i performer sopra citati e Amos Cappuccio. 

VL: Come è stato il casting? Ci racconti la tua esperienza individuale e il primo incontro con Ari? 

CC: Per il casting ho preparato un solo in cui suonavo il flauto traverso. Ari si è mostrato subito interessato al mio percorso di studi che coinvolge studi musicali ed artistici, e da lì ci siamo aperti a diversi scambi di riflessione sulle relazioni  tra i linguaggi della musica, in particolare quella colta, e quelli delle arti visive contemporanee. Durante la seconda fase di audizioni sono entrata per la prima volta in contatto profondo con il lavoro di Ari. È stato sin da subito stimolante entrare nella musica e nei suoi pattern ritmici.  

 EM: Il mio casting è avvenuto in un secondo momento, dopo quello fatto da Ari con gli altri. Io ho incontrato solo Valentina e Giulia (curatrici OGR ndr), che hanno poi condiviso con Ari le registrazioni dei vari “esercizi”. Il casting è stato molto bello. Non essendo un cantante di professione, mi sono stupito di trovarmi molto a mio agio a usare la voce in quel contesto. Mi ricordo addirittura di essermi commosso improvvisando sul tema vocale che Valentina mi ha insegnato. Devo dire che più di tutto in quel momento ho trovato sorprendente di stabilire un rapporto così informale e piacevole con la curatrice. Ricordo di aver pensato che Valentina sarebbe stata fantastica come performer nel lavoro.   

MD: Il casting è stato abbastanza rilassato rispetto ad altre esperienze di casting vissute in passato (per quanto disteso possa essere un processo di selezione, ovviamente). Erano stat* convocat* altr* performers che conoscevo e il tempo d’attesa condiviso non è risultato pesante. Si è svolto in due giorni distinti, il primo con colloqui singoli, momento di dialogo e di presentazione dei soli. Avendo avuto poco preavviso, avevo deciso di non preparare nulla di definito, ma di lavorare sull’ascolto e sull’improvvisazione corpo-voce e sulla prossimità con le persone presenti. Dal mio punto di vista il mio solo è stato un disastro.. ma parlare con Ari più nello specifico della sua ricerca mi ha rassicurata. Anche se sentivo di non essere stata molto convincente nella mia performance improvvisata, percepivo molta affinità con le sue intenzioni.
Il secondo incontro, a distanza di giorni, per me, è stato bellissimo. Credo sia durato circa cinque ore, eravamo una quindicina di performers convocat* e sotto la guida di Ari e di Valentina ci siamo adentrat* un po’ nella metodologia e nei contenuti del lavoro. Sono uscita ricaricata, cantando. 

LP: Per il casting era stato richiesto di preparare qualche minuto di assolo. Personalmente mi sono divertita giocando d’improvvisazione…Non ho avuto immediatamento esito positivo ma sono stata ricontattata a pochi giorni dall’inizio delle prove per una sostituzione last minute. A quel punto ho incontrato Ari, che si è reso disponibilissimo ad aiutarmi con lo studio del materiale che avevo ricevuto in ritardo rispetto agli altri performers .Durante il nostro incontro non mi ha mai fatto sentire “la sostituta”, un atteggiamento per me umanamente molto prezioso.  

 

VL: Come è stata l'esperienza di formazione con Ari? Ci racconti il periodo di training con lui? Le tue impressioni etc.  

CC: Il periodo di training è stato molto entusiasmante e positivo: personalmente ho potuto riscoprire e “aprire” la mia voce. Inoltre è stato particolarmente interessante avvicinarmi alla partitura di “Serious Immobilities” ( opera lite-motiv della mostra ndr ) e al processo di composizione di una drammaturgia distesa in un tempo dilatato di sei ore consecutive. 

EM: Per me è stato inaspettato e un po’ magico ritrovarmi a lavorare così intensamente sul canto e sulla voce, avendo una formazione prevalentemente come mover e nella danza. Era un desiderio che coltivavo da tempo ed è stato un bellissimo regalo poter imparare e crescere all’interno di un lavoro. Anzi, penso che l’intensità della performance fosse strettamente legata alla fragilità che portavamo con noi, performando senza la barriera protettiva del professionismo e della tecnica. 

MD: La formazione è stata molto intensa. Le informazioni da assimilare prima dell’apertura della mostra erano tantissime e non tutt* noi eravamo preparat* ad un utilizzo della voce così frequente. Dal punto di vista della tecnica vocale non abbiamo ricevuto molte indicazioni, quindi abbiamo dovuto trovare soluzioni personali, provare, fallire, riprovare, allenare la resistenza. Ci sono stati giorni entusiasmanti ed altri molto frustranti. Con il periodo di prove per me è stato come iniziare un lungo viaggio, come addentrarci in un luogo scuro (il Binario 1) che non aveva nulla di pauroso, ma era enorme, profondo ed impegnativo da esplorare. 

LP: Dell’esperienza di formazione ho un ricordo molto rilassato, produttivo e di scambio. Ari è stato davvero democratico nella ricerca e ci ha dimostrato molta fiducia. Uno spazio ampio come Binario 1 non è sicuramente semplice, ma penso che l’immediata sinergia del gruppo, coltivata poi da Ari, abbia donato fluidità alla composizione della performance durante i giorni di training.  

 

VL: Come è stato il periodo di mostra? In che modo l'intesa di "gruppo" è cresciuta nei giorni?   

 CC: La crescita d’intesa nell’ensemble (costituito da 5 perfomers italiani e 3 performers stranieri) è stata fondamentale per lo sviluppo della mostra stessa. Non è stato subito immediato trovarsi a proprio agio nell’abitare lo spazio del Binario 1, ma con il passare dei giorni si è creata un’intesa dinamica tra noi. I momenti per me più interessanti sono avvenuti durante gli spazi d’iimprovvisazione in cui si è creata una grande fiducia reciproca: abbiamo imparato a creare silenzio per ascoltarci a vicenda, in un equilibrio che andava poi evolvendosi nel rapporto con il pubblico. Questo a volte si trovava in una posizione passiva, mentre altre volte in un rapporto più attivo, perciò è stato importante imparare a capire come rispettare ogni persona nello spazio e nel tempo performativo.  Inoltre, tra di noi c’erano sia musicisti che danzatrici, ed è stato bellissimo poter mettere in condivisione le diverse competenze. Io ho imparato tantissimo soprattutto dai miei compagni e dalle mie compagne.  

EM: È stato un lungo periodo, una maratona. Per me è stato straordinario osservare che pian piano capivamo come abitare quella situazione performativa complessa. A un certo punto, dopo un po’ di sbandamenti, è scattato qualcosa, come se avessimo capito come modulare la relazione col pubblico. Dico che è complesso perché la relazione non è ovvia. Non c’è una cornice chiara, non c’è palco, non ci sono sedute, non c’è inizio né fine, spesso non c’era un’azione centrale. Per la gente questo può creare un senso disorientamento e ognuno reagisce in modo unico e irripetibile. Come gruppo e come performer dovevamo interpretare questa delicata comunicazione facendo in modo che i visitatori si sentissero il più possibile liberi di scegliere come relazionarsi, e allo stesso tempo invitandoli sottilmente a partecipare, ma senza forzare, cosa che facilmente poteva sfiorare il rischio di fare da “animatori”, per così dire. 

MD: L’esperienza della mostra è stata una specie di tempo fisiologico dello sviluppo dell’opera stessa e del gruppo che la incarnava. L’unione del gruppo come “organismo” è cresciuta ogni giorno, così come la capacità di ascolto e di apertura agli imprevisti (cioè a tutto, perché alla fine quasi tutto era imprevisto). Ad un certo punto ci siamo accort* che la versione più piena dell’opera, la sua manifestazione più completa, forse era osservabile proprio nelle ultime settimane di apertura… era come se il pubblico fosse stato testimone, dall’opening alla chiusura, dell’intero processo di trasformazione, crescita, evoluzione, incarnazione del lavoro artistico. La dipendenza dell’opera da noi e dalla presenza delle persone in sala, la mutevolezza della performance e della sua struttura, condizionata dalle nostre energie/stanchezze e dalle reazioni della gente, ha generato atmosfere e connessioni temporanee e intensissime. Era tutto in continua trasformazione e noi dovevamo esser pront* ad accogliere i cambi, in ogni momento. Come molte trasformazioni, anche quella avveniva nell’oscurità, si manifestava nella penombra e con brevi visioni illuminate. Riconosco che la mostra è stato un allenamento alla sensibilità e alla percezione che mi è servito anche in successivi lavori performativi. 

LP: Il periodo di mostra e stato un processo giornaliero di trasformazione e maturazione. Per questo credo che il vernissage sarebbe potuto coincidere con il finissage. È stato per tutti un colpo di fulmine, ci siamo innamorati e innamorate fuori e dentro lo spazio performativo. Abbiamo fatto feste, mangiato pizze e bevuto spritz, molti spritz. E’ stata un’intesa naturale e per la mia esperienza, oserei dire unica.  

 

VL: Ci sono state difficoltà? Avete avuto momenti di scoraggiamento o grande fatica? Come avete lavorato per superarli? 

CC: Ci sono state giornate in cui venivano un basso numero di visitatori ed era veramente difficile condurre la performance senza che ci fosse un effettivo scambio con il pubblico. Quelli sono stati per me i momenti più difficili. Ogni giorno però, ci ponevamo nuovi comuni obiettivi o dettagli da curare, e questo è stato fondamentale sia per creare l’intesa tra noi come gruppo, ma anche per affrontare la dimensione quotidiana che la mostra era diventata. Per esempio, ogni giorno sperimentavamo pratiche di improvvisazione o diversi utilizzi dello spazio del Binario 1.  

EM: È stata una lunga maratona. Giornate interminabili con flussi di pubblico molto altalenanti. Non saprei dire se era più faticoso avere duecento bambini intorno o continuare magari per 1 ora a performare senza pubblico. In diversi momenti la gestione delle energie non è stata semplice. Personalmente però il momento più difficile è stato qualche giorno prima del vernissage. Ero terrorizzato di dover cantare davanti a tutta quella gente. Era qualcosa a cui non mi sentivo pronto. Ho pensato di scappare. Poi naturalmente sono rimasto e, alla fine, nonostante la stanchezza, sarei andato avanti altri 3 mesi. 

MD: All’inizio, durante la formazione con Ari, abbiamo affrontato le difficoltà relative all’acquisizione concentrata di molte informazioni unite all’esperienza (per qualcun*) di apprendimento di gestione della propria voce senza stressare gli organi. Una volta superato l’opening, ci siamo ritrovat* ad affrontare quotidianamente flussi di persone variabili senza la guida di Ari. Lego i ricordi dei momenti più difficili a quando ci siamo ritrovat* senza la presenza del pubblico, cosa che ha generato frustrazione e stanchezza. Oppure a quando, dopo un paio di settimane dopo l’opening, ci siamo accort* che iniziavamo ad annoiarci nella struttura impostata per l’apertura. Il gruppo si è confrontato, Ari ci ha lasciato molta libertà e abbiamo iniziato ad esplorare nuove soluzioni per abitare quello spazio-tempo, per farlo crescere, andare in altre direzioni, attraversando i vuoti e i pieni con altre intensità e concedendoci di modificare certe leggi. 

LP: Le difficoltà più scoraggianti sono state sicuramente i momenti di assenza di pubblico. Performando per 6 ore consecutive ed essendo la performance un dialogo, a volte era un po’ come parlar da soli. Però ci sono stati momenti in cui ci si sentiva rigenerati da una connessione quasi magica con i visitatori, presenti e attivi. Questo credo ci facesse superare i momenti di assenza. 

 

VL: Ci racconti il momento o i momenti più intensi di questa esperienza?    

CC: Ci sono stati più momenti che meriterebbero di essere raccontati. Tra tutti un pomeriggio in cui un gruppo di ragazze africane è venuto a visitare la mostra. Inizialmente si sono mostrate timide nei nostri confronti e nei confronti dello spazio che a primo impatto può sembrare dispersivo. Dopo pochi minuti le ragazze sono entrate nella musica; con loro si è alimentata una situazione e un’energia pazzesca: dalle note di “Serious Immobilities” abbiamo improvvisato ritmi africani, per poi tornare delicatamente verso la drammaturgia  originaria. Le ragazze sono state tutto il pomeriggio con noi, ci hanno accompagnati  attraverso diverse situazioni regalandoci un’esperienza d’incontro genuino e perciò travolgente. Gliene sarò sempre grata.  

EM: È difficile fare una selezione, ci sono stati tanti momenti incredibili e difficili da raccontare. Ne scelgo 2. Il primo, più intimo, è quando ho insegnato e cantato DUET con mio padre, che è la persona più restia al canto che io conosca. Alla fine eravamo stremati ma felici. Un altro momento che mi porto dentro e che penso nessuno di noi si scorderà mai è stato l’incontro con il gruppo di ragazze africane. Saranno state 20/30. Il contesto della performance, come dicevo, era spiazzante per il pubblico. Richiedeva una scelta: come mi comporto in questa situazione? Le ragazze hanno compreso subito istintivamente che si trattava di creare una comunicazione con la musica senza intellettualismi. Da lì è nata una improvvisazione lunghissima, folle, di canti, balli, energia, gioia di essere vivi, incontenibile. Veramente una differenza enorme rispetto al pubblico colto, preparato, alcune volte molto borghese che spesso frequenta l’arte contemporanea con un senso di autocompiacimento molto mentale, ma senza capacità di fare esperienza delle cose con un’apertura radicale. Lì, dove c’è quell’apertura, si sperimentano i momenti miracolosi di incontro con l’altro. 

MD: Tutta la performance durata mesi è stata intensa come un lungo viaggio. Era forte accorgersi delle lacrime di qualche persona del pubblico dopo un momento particolarmente intenso o osservare le nostre reazioni fisiche alle emozioni provocate dalla nostra intesa o dalla vibrazione delle voci assieme ai nostri stessi corpi, indaffarati nell’azione, reagivano con pelle d’oca e lacrime. Indimenticabile la visita (durata ore!) di un gruppo di ragazze di origine africana che hanno gioiosamente stravolto la struttura di un intero pomeriggio, contribuendo con i loro corpi e le loro voci alla creazione di un episodio unico e specialissimo della performance. 

LP: Uno dei momenti più intensi che ricordo è con un gruppo di donne africane. Entrarono timidamente nello spazio a performance già iniziata. Rimasero sedute ad osservarci per qualche minuto, poi si accesero. Alcune di loro ci seguirono con la voce e si avvicinarono. La struttura iniziò a trasformarsi e non ho ben chiaro come, ci ritrovammo a condividere ritmi funky e suoni di voci che intonavano “Serious immobilities”. Credo siano rimaste a seguire la performance per più di due ore. Questo è stato uno dei tanti momenti intensi di scambio in cui le emozioni si amplificavano.  

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Il progetto nasce nell'ambito di OGR is digital: le OGR Torino si raccontano attraverso contenuti inediti e attività per il pubblico. Con lo sguardo rivolto al futuro, le OGR intendono narrare la vocazione che ne compone e definisce le molteplici anime culturali. Non solo arte, musica e tecnologia, ma anche il rapporto e l’interazione con il pubblico, al centro degli spazi sia fisici che virtuali.

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